martedì 23 giugno 2009

Limes: bugie e propaganda a favore degli Ayatollah

Questo articolo è un estratto di un più ampio e dettagliato contributo che sarà pubblicato sul prossimo volume di Limes (in edicola dal 7 luglio) e che anticipiamo in considerazione dell'importanza degli eventi in corso in questi giorni. L'articolo integrale è corredato di numerose note esplicative, fondamentali per capire un mondo così complesso e sconosciuto ai più.

Premessa

In Iran, e più in generale nello sciismo e nell’Islam, non esiste nessun clero. Nelle civiltà e culture musulmane, il potere e i rapporti di forza si costituiscono in maniera orizzontale, e non verticale. Lo spazio, fisico e culturale, si sviluppa partendo da principi e prassi di “vicinanza” e “lontananza” dal centro, e fra un “fuori” e un “dentro”. L’Iran è il più antico Stato del Medio Oriente, e l’unico paese completamente indipendente della regione. L’Iran è da considerarsi, senza ombra di dubbio, la più avanzata democrazia in Medio Oriente. Questa democrazia è patrimonio condiviso degli iraniani. Se le cose non stessero in questi termini, non avremmo avuto delle elezioni; queste non avrebbero visto la partecipazione della netta maggioranza della popolazione iraniana; non ci sarebbe una pubblica accusa di brogli; non ci sarebbero stati dei feroci attacchi personali fra i candidati; non ci sarebbero dei vincitori e dei perdenti ufficiali; la polizia non avrebbe arrestato più di un centinaio di rappresentanti politici riformisti e il nome di questi rappresentati non sarebbe ben noto tanto alle forze dell’ordine che agli iraniani; alcuni di questi riformisti non sarebbero stati, quindi, rilasciati il giorno dopo il loro arresto; le forti divergenze fra i gruppi che si contendono il potere, e il futuro del paese, non si sarebbero spostate dalla televisione alle strade di Teheran, Tabriz, Rasht, Shiraz; a protestare non ci sarebbero ragazze fra i diciotto e i trent’anni e studenti universitari: la maggioranza numerica della popolazione della Repubblica islamica d’Iran.
Questa potrebbe essere la prima rivoluzione realizzata grazie a internet e a quei social network, che, tra le altre cose, limitano il potere della carta stampata e dei giornalisti. Leggendo questo articolo direi fortunatamente. Penso che sia veramente un articolo degno di Walter Waranty(Premio Pulitzer del NYT nel 1932, con un apologia del regime stalinista). Sinceramente e` talmente sfacciatamente filoregime da apparire imbarazzante.
Voglio mettere in evidenza le due affermazione del tutto prive di fondamento che costituiscono l`essenza dell`articolo.
La prima: in Iran non esiste un clero e una gerarchia. Scusate ma Khomeini era un ateo e aveva lo stesso potere di un fruttivendolo, o era la guida suprema del paese capo degli Ayatollah(idem per Kamenhei,ora)? La seconda: "senza dubbio l`Iran e la democrazia piu avanzata del M.O".
Non sapevo che in una democrazia simpiccano i gay per le loro attitudini sessuali.Non sapevo che in una democrazia le guide religiose scelgono chi ammettere alle elezioni, si arresta chi perde le elezioni, si spara ai civili che manifestano.
Penso che Limes, approvera` se alle prossime elezioni, il fututo lider maximo della sinistra che perdera`, sara` imprigionato e rilasciato dopo solo ventiquattro ore.
Sicuramente,inoltre Limes, si entusiamera` se i candidati alle elezioni future in Italia veranno scelti dalla CEI e in Israele,per esempio, dai rabbini
Il giornalismo italiano di sinistra ha fornito l`erede di Walter Duranty.

La rivolta iraniana e Obama presidente "tentenna"

Da oltre una settimana vanno avanti le proteste di piazza in Iran che, da qualche giorno sto` seguendo dall`America. Da questa part dell`oceano I due principali network,Fox e CNN hanno dato amplissima copertura alla vicenda, dedicandogli continuamente servizi e editoriali.
La questione iraniana ha assunto anche una notevole rilevanza politica con i repubblicani, costantemente all`attacco per l`imbarazzante chamberliana posizione assunta da Obama, che tradendo lo spirito americano, ha evitato di schierarsi apertamente contro il regime di Teheran.
Due sono le possibili soluzioni.
La prima e` che Obama confermando quello che, purtroppo, avevo sostenuto fin da prima della sua elezione e che lui ha supportato con i fatti e` il nuovo Carter.
Un pericoloso pseudo realista che, con una politica chamberliana di appeasement nei confronti delle peggiori dittature, mette in pericolo gli Stati Uniti e quindi l`intero occidente.A proposito, e` stato al quanto imbarazzante quando ha detto che la sua posizione sulla crisi iraniana e` dettata dalla volonta` di difndere gli interessi americani. In generale, considerando i primi mesi alla Casa Bianca, questa sembra la soluzione piu` probabile.Oltretutto Obama, da piccolo frequento` le moschee in Indonesia e sebbene dopo averlo dichiarato lo ha subito smentito( il tutto sulla Cbs), potrebbe essere musulmano.L`inchino con baciamano al re dell`Arabia Saudita, il discorso del Cairo sono perfettamente in linea con questa sua posizione.
Nonostante cio` la speranza e la logica mi porta a sostenere che questa volta Obama potrebbe aver scelto la strada giusta.Un`aperto sostegno degli Stati Uniti ai rivoltosi favorirebbe la propaganda di regime, che ne approfitterebbe per presentarli come burattini in mano a sionisti e americani.
Al contrario una posizione di “ basso profilo”, a cui corrisponde sostegno occulto ai rivoltosi con denaro armi e possibilemte rifugi sicuri sarebbe veramente cio` che potrebbe fare la differenza.Questo in realta` dovrebbe essere fatto da tutti i servizi segreti occidentali, insieme all`invite ai media a coprire incessantemente gli eventi rilanciando le notizie e I video che sono in rete.
In definitiva propendo per questa seconda posizione dell`amministrazione Obama, perche` sinceramente non penso che la maggioranza dei membri del gabinetto presidenziale, la difesa e il dipartimento di stato accettano di restare passive e non cerchino di approfittare di una di un`opportunita` storica.
Infine questi mesi dimostrano, come la politica di Bush fosse tutt`altro che sbagliata.Se in Iran vi e` una rivolta non e` certo per la posizione tenuta negli anni passati dagli europei e negli scorsi mesi da Obama.
La linea dura della precedente amministrazione americana ha, infatti, favorito la crisi economica in Iran e le infiltrazioni propagandistiche e “imperialiste” bushiane hanno contribuito a far sbocciare il desiderio di liberta` nei giovani iraniani.

sabato 13 giugno 2009

Un ebreo non è una persona.



Se questo è un ebreo: per non urtare la “sensibilità” della comunità musulmana delle periferie, il caso venne fin dall’inizio tenuto su un registro basso.
Il caso Ilan Halimi: decine di persone sapevano che stavano torturando un ragazzo ebreo francese
Il caso del Daniel Pearl francese. Al processo contro gli islamisti che hanno torturato e giustiziato Halimi s’è alzato un grido: “Allah vincerà”
Parigi - “Se questo è un ebreo”, recita il titolo del bellissimo pamphlet di Adrien Barrot. La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan Halimi soltanto dopo la sua morte. Un sorriso che nulla sembra dire di quell’odio e di quella ferocia durata tre settimane nelle mani di una gang di islamisti delle banlieue parigine. “Giovani per i quali gli ebrei sono inevitabilmente ricchi”, ha detto Ruth Halimi degli assassini di suo figlio. La madre di Ilan ha pubblicato il diario di quei “24 giorni” (Seuil edizioni).

Ieri Ruth è andata in tribunale a guardare la gang musulmana, in un processo che genera angoscia e scandalo in Francia per come il caso è stato trattato fin dall’inizio, da quel tragico febbraio di tre anni fa. “Quando li osservo, non vedo odio, ma una tristezza immensa”, dice il padre, Didier Halimi. Ruth ripete che l’uccisione di suo figlio è “senza precedenti dalla Shoah”.
Youssouf Fofana, il capo “dei barbari”, è entrato in aula con il sorriso, ha alzato un pugno verso l’alto e gridato: “Allah vincerà”. Testa rasata e maglietta bianca, Fofana alla domanda sulla sua data di nascita ha risposto: “Il 13 febbraio 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois”. E’ il giorno in cui il corpo di Ilan è stato trovato, nudo e straziato. Quando gli viene chiesto il nome, Fofana risponde: “Africana barbara armata rivolta salafista”.
La Francia non ha ancora fatto i conti con questo feroce antisemitismo islamico, che germina all’interno delle sue folte comunità musulmane. Sei anni fa, Sebastien Selam, un dj di Parigi di 23 anni, uscito dall’appartamento dei genitori per andare al lavoro, venne aggredito nel garage del parcheggio dal vicino musulmano Adel, che gli ha tagliato la gola due volte, quasi decapitandolo, gli ha squarciato il volto e gli ha cavato gli occhi. Adel è corso sulle scale del condominio, grondando sangue e urlando: “Ho ucciso il mio ebreo. Andrò in paradiso”.
Nella stessa città, in quella stessa sera, un’altra donna ebrea veniva assassinata, in presenza della figlia, da un altro musulmano. Erano i prodromi di una “tendenza” e i mezzi di comunicazione amano le tendenze.
Eppure, nessuna delle principali testate francesi riportò il fatto.
Lo zio di Ilan racconta che durante le telefonate per il riscatto alla famiglia venivano fatte sentire le urla del ragazzo ebreo bruciato sulla pelle, mentre “i suoi torturatori leggevano ad alta voce versi del Corano”.
I rapitori pensavano che tutti gli ebrei fossero ricchi e che la famiglia di Halimi avrebbe pagato il riscatto. Non sapevano che la madre era una centralinista. E che Ilan, per campare alla meglio, lavorava in un negozio di telefoni cellulari. Fu trovato agonizzante, il corpo bruciato all’ottanta per cento, vicino alla stazione di Saint-Geneviève-des-Bois. Seminudo, con ferite e bruciature di sigarette ovunque sulla carne viva e in tutto il corpo, Ilan è morto nell’ambulanza verso l’ospedale.
Ruth nel suo libro denuncia che, per non urtare la sensibilità della comunità musulmana delle periferie, il caso venne fin dall’inizio tenuto su un registro basso, la polizia negava l’intento religioso del sequestro e l’identità islamica di tutti i rapitori; la stessa polizia che chiese alla famiglia di non farsi pubblicità e che fece poco, molto poco, per scardinare la rete di famiglie che proteggeva la gang. Decine di persone sapevano delle torture inflitte per tre settimane a quel ragazzo ebreo che sognava di vivere in Israele.
Nidra Poller sul Wall Street Journal scrive che “ciò che più disturba in questa storia è il coinvolgimento di parenti e vicini, al di là del circolo della gang, a cui fu detto dell’ostaggio ebreo e che si precipitarono a partecipare alla tortura”.
Divenne tutto più chiaro quando l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy annunciò che a casa del rapitore erano stati trovati scritti di Hamas e del Palestinian Charity Committee.
Intanto la magistratura francese ha ritirato le copie del magazine “Choc” che ha appena pubblicato la fotografia di Halimi in ostaggio, giudicandola “offensiva”. Si vede Ilan imbavagliato, con una pistola alle tempie e una copia di un giornale. La stessa, identica posa d’una famigerata fotografia di sette anni fa con Daniel Pearl, il corrispondente ebreo del Wall Street Journal decapitato da al Qaida in Pakistan.
Il New York Times scrive che “in due settimane e mezzo di processo poco è filtrato sul procedimento”. Si svolge a porte chiuse. Quel che è emerso è senz’altro il tentativo del governo francese di occultare l’odio islamico contro gli ebrei come movente della esecuzione di Halimi. Si è parlato poi della stanza in cui venne tenuto Halimi come di un “campo di concentramento fatto in casa”.
Il reporter francese Guy Millière scrive che “le grida venivano sentite dai vicini perché erano particolarmente atroci: gli assassini sfregiarono la carne del giovane uomo, gli spezzarono le dita, lo bruciarono con l’acido e alla fine gli hanno dato fuoco con del liquido infiammabile”. La madre di Ilan aggiunge che durante una delle telefonate alla famiglia i sequestratori trasmisero un nastro: “Sono Ilan, Ilan Halimi. Sono figlio di Didier Halimi e di Ruth Halimi. Sono ebreo. E sono tenuto in ostaggio”. “Come si fa a non pensare a Daniel Pearl?”, domanda Ruth.
Adrien Barrot, filosofo all’Università di Parigi, ha scritto per le edizioni Michalon uno straordinario libro sul significato dell’uccisione di Halimi. “Non è stato facile fare il verso a Primo Levi”, dice al Foglio a proposito del titolo del suo saggio, “Se questo è un ebreo”. “Si fatica oggi a capire la crescita enorme dell’antisemitismo in Francia dopo l’11 settembre. Io stesso sono di sinistra e per molto tempo faticavo a realizzare questo antisemitismo nuovo che si nutre della cultura antirazzista. Non possiamo criticare gli immigrati musulmani, così finiamo per accusare di razzismo gli stessi ebrei. Dicono che c’è antisemitismo, ma che la colpa è soltanto del sionismo. Lo sentiamo ripetere ogni giorno. L’affaire Halimi significa che il tabù è caduto e l’antisemitismo si sta diffondendo ovunque in Francia”.
Barrot critica la visione pedagogica dell’antisemitismo. “E’ troppo astratta, fondata su un’immagine stereotipata. Siamo resi incapaci di identificare ciò che il crimine ‘dei barbari’ ci mette sotto gli occhi, la cellula germinativa dell’orrore che la nostra ‘memoria’ non cessa ritualmente di esorcizzare. Ilan non portava un lungo caffettano nero, un cappello di feltro, le frange rituali, non portava neppure la kippà. Ilan Halimi portava soltanto il suo nome e fu sufficiente a fare di lui una preda. E’ allora che ho compreso che ormai era ridiventato difficile essere ebreo in questo paese”.
La retorica pseudoeducativa sull’antisemitismo è incapace di penetrare l’odio che l’islamismo predica contro gli ebrei. “La memoria dell’antisemitismo è evocata per impedire, proibire, riconoscere la realtà attuale, di chiamare le cose con il loro nome. Eccesso, abuso, dittatura della memoria? Memoria inutile? Memoria vuota piuttosto, che ha immesso nella coscienza pubblica soltanto una nozione completamente astratta. Come se i soli buoni ebrei, gli ebrei degni di essere difesi, fossero gli ebrei morti, trasportati in una sfera astratta e pura, non contaminata da tutto ciò che, nella vita, li espone all’odio. C’è una relazione sinistra tra la morte atroce di Ilan Halimi e l’assenza di mobilitazione massiccia che l’ha seguita. La nostra vigilanza veglia sugli ebrei morti ed espone i vivi alla violenza”.
Al processo, i carcerieri di Ilan hanno raccontato che la prima settimana del sequestro Halimi l’ha trascorsa in un appartamento prestato ai rapitori da un concierge. Youssouf Fofana ha pensato a decorarlo di tele “con motivi arancione per coprire i muri”. Ammanettato, con addosso soltanto una vestaglia comprata all’Auchan, alimentato con proteine liquide attraverso una cannuccia, Ilan passò così molti giorni. Per entrare nell’appartamento ci voleva un codice: bussare due volte e poi ancora una. Poi Fofana si è caricato Ilan in spalla e l’ha portato nella caldaia: “Pisciava in una bottiglia e faceva la cacca in una busta di plastica”, racconta uno dei carcerieri, Yahia. Le botte sono iniziate dopo che è fallito il primo tentativo di riscatto.
Ma gli episodi più significativi sono avvenuti quando si è trattato di scattare le foto destinate a spaventare la famiglia della vittima, compresa la simulazione di una sodomia con il manico della scopa e uno sfregio alla faccia fatto con il coltello di un imputato, Samir Ait Abdelmalek. Il giorno in cui venne giustiziato, racconta Fabrice, “gli ho tagliato i capelli, Zigo e Nabil (altri due carcerieri, ndr) hanno detto che non erano abbastanza corti e l’hanno rasato con un rasoio a due lame”. Gli hanno tagliato anche i peli del corpo. Per non lasciare alcuna traccia nel covo. Ilan venne asciugato e avvolto in un telo viola, comprato al supermercato all’angolo. Fofana è arrivato nel profondo della notte. Quando Ilan è riuscito a guardarlo in faccia, l’islamista lo ha colpito con un coltello alla gola, alla carotide, poi un altro affondo. Poi gli ha dato un taglio alla base del collo, e al fianco. E’ tornato con una tanica di benzina, gli ha versato il combustibile e gli ha dato fuoco.
Finiva così la vita di un ragazzo di 23 anni nel primo paese nella storia ad aver dato agli ebrei diritti civili. Ieri, in tribunale, Ruth ripeteva: “Chiedo ogni giorno a mio figlio di perdonarmi”.

L'articolo è di Giulio Meotti sul foglio.Personalmente l'ho ripreso da Focuson Israel.
Mentre Obama pronunciava il fantasioso discorso sulla civiltà islamica, sul fatto che non vi fossero differenze sostanziali con la civiltà giudaico cristiana occidentale,in francia si svolgeva questo processo.Ovviamente sui giornali nessuno ha parlato di questo processo, è molto più comodo e politically correct parlare di Amanda Knox.Non si può parlare delle violenze compiute dagli islamici,loro devono essere le vittime nonostante tutti gli atti di terrorismo siano loro e nonostante ,tranquillamente, affermino quali sono le loro intenzioni.

lunedì 8 giugno 2009

GLi abitanti dei campi profughi esclusi dalle elezioni libanesi

Guardo la tv e mi sembra che parlino tutti di noi, Obama, Ahmadinejad, i politici libanesi». Bassam al Haik pulisce il rasoio sull’asciugamano, saluta il cliente e mette in tasca la banconota da 2000 lire (un euro). Trentadue anni, 3 figli, ha imparato il mestiere dal padre che aveva imparato dal nonno: tre generazioni di barbieri in 5 metri quadrati tra i vicoli del campo profughi palestinese di Chatila, alla periferia Sud di Beirut. I libanesi votano per il governo a cui paga l’elettricità, osserva Bassam riponendo la gelatina Haway nel mobiletto sovrastato dal poster di Zidane. Lui però non ha voce in capitolo: «Vorrei il passaporto libanese per poter lavorare fuori da qui. Se potessi, sceglierei l’opposizione».

Il poster del leader di Hezbollah Nasrallah colora il tetro muro di cemento dell’edificio che s’innalza a mezzo metro dalla sua vetrina. Quattrocentomila palestinesi invisibili sono il rimosso di questa campagna elettorale, coscienza torbida dei due blocchi che si contendono il futuro del Paese sfidando il passato, la guerra civile, il fato dei fratelli di serie B rifugiati qui dal ’48. «Il diritto al ritorno non va collegato al diritto alla nazionalità», denuncia Lina Abou-Habib, responsabile dell’organizzazione non governativa Crtd.A. L’eventuale inclusione che cancellerebbe i 12 campi profughi, buchi neri tra la valle della Bekaa e il mare, divide i politici in modo trasversale, soprattutto sulle ragioni del rifiuto.

Sostiene Hezbollah che regolarizzare i profughi allenterebbe la pressione su Israele, i custodi dell’equilibrio confessionale obiettano che un’iniezione di sunniti altererebbe la delicata miscela nazionale, generali e alti ufficiali ricordano senza nostalgia i giorni in cui l’Olp cresceva autonoma, uno stato nello stato. All’ingresso di Chatila, sullo sterrato coperto di spazzatura come in una delle drammatiche inquadrature di Valzer con Bashir, il film dell’israeliano Ari Foldman sul massacro del 1982, due ragazzini inseguono la palla dribblando il carretto di pesche che avanza incerto. Passi per l’acqua potabile, scherza, inossidabile alla malasorte, il vecchio che lo traina: «Avevo 2 anni quando sono arrivato e non c’è ancora un campo di calcio».

Giovedì centinaia di migliaia di libanesi hanno cercato nell’impegno del presidente americano per la pace in Medio Oriente un riferimento che li riguardasse. «La presenza dei palestinesi ci ha già creato molti problemi negli Anni 70, il Libano non può permettersi di assorbirli», spiega l’ex ambasciatore Khalid Makkawi. Beirut si fida di Obama. La vetrina della libreria Way In, nel cuore di Hamra, espone 5 titoli dedicati al nuovo inquilino della Casa Bianca, dall’Audacia della speranza a un manualetto a prova di scettici, Obama for beginners. Sognando che il mantra «We can» possa un giorno sciogliere le contraddizioni di un paese che fa la fila al cinema per vedere lo slum malsano di Bombay nel film The Millionaire ma chiude gli occhi di fronte a quello quasi identico cresciuto nel cortile di casa. «La situazione dei palestinesi è disastrosa, un inferno», afferma lo scrittore Jabbour Douaihi che sta per pubblicare con Feltrinelli Pioggia di giugno.

In cima alle scale di una palazzina con i cavi elettrici che penzolano come liane della giungla, Rwaida Maser Ukadid pulisce la verdura per preparare la mloukia, il piatto preferito dei suoi 4 figli. Ha 42 anni, è vedova da dieci: «Mi arrangio con quello che mi mandano i parenti dalla Danimarca e gli aiuti delle Nazioni Unite, riso, olio, 50 dollari ogni tre mesi». Il figlio Ahmed, 19 anni, studia ingegneria all’università di Beirut: «Lo so che sarà costretto a fare il muratore, ma ci tiene tanto a questa laurea, ho venduto tutto l’oro della famiglia per pagare l’iscrizione. Vorrei avere la cittadinanza solo perché potesse avere le chance dei suoi coetanei». Secondo la legge i palestinesi non possono acquistare la casa e sono esclusi da 72 professioni considerate prestigiose, avvocato, medico, ingegnere. «Non resta che aprire una bottega nel campo o lavorare a giornata, guadagnano la metà dei 20 dollari che spettano a un libanese», spiega il direttore del National Institute of Social Care&Vocational Trainig Hasem Haine nell’ufficio all’ingresso di Chatila, sulla strada piena di bandiere del Fronte 14 marzo. Ha apprezzato che Obama abbia parlato di Palestina, pioniere nel sostituire il sogno alla geografia. La realtà che vede dalla finestra però, 16 mila persone di cui metà minori di 20 anni, lascia poco spazio alle fughe in avanti. «Siamo l’unica diaspora che invece di mandare i soldi in patria è costretta a riceverli», osserva Jamile Shedade, 55 anni, assistente sociale al centro Beit Atfal Assumoud, nel cuore del campo. Gli emigrati libanesi sono tornati in massa per sostenere e finanziare il cambiamento, qualsiasi esso sia. Chatila li guarda da lontano.

Francesca Paci.LA STAMPA

Il motivo per cui i palestinesi da oltre 40 anni sono ancora dei profughi nei diversi paesi arabi è quantomai banale: servono a questi paesi sia come manodopera semischiavistica sia come strumento per fomentare l'odio antisemita e impedire la pace.Tutto questo, ovvimente, supportato dalla propaganda comunista,liberal, fascista,e in parte cattolica(mi riferisco a categorie culturali ideologiche piuttosto che a specificipartiti).
E' altresì vero che i palestinesi,fomentati dall'Unione Sovietica che li ha sempre riforniti di armi e incitati alla guerra, hanno quasi distrutto il regno giordano e hanno portato alla distruzione del Libano

giovedì 4 giugno 2009

Violentare un'ebrea è un buon metodo per fare resistenza




Giornalista: L’avvocato egiziano Nagla Al Imam ha affermato che, come strumento di resistenza contro Israele, i giovani arabi dovrebbero molestare sessualmente le ragazze israeliane ovunque siano ed usando qualsiasi metodo.
Abbiamo con noi l’avvocato Nagla Al Imam dal Cairo. Benvenuta.Qual’è lo scopo della sua proposta?

Nagla Al Imam
: E’ una forma di resistenza. Loro sono un piacevole passatempo per tutti gli arabi e non c’è nulla di sbagliato in ciò.Prima di tutto loro violano i nostri diritti e “stuprano” la nostra terra.Poche cose sono gravi come lo stupro della terra. Secondo me, questa è una nuova forma di resistenza.

Giornalista: Come avvocato ,non pensa che questo potrebbe condurre i giovani arabi ad essere condannati per aver violato la legge sulle molestie sessuali?

Nagla Al Imam
: Nella maggior parte dei paesi arabi con l’eccezione di tre o quattro paesi, in cui comunque non penso sia permesso alle donne israeliane di entrare,non esistono leggi sulle molestie sessuali.Quindi se le donne islamiche sono un piacevole passatempo per gli uomini arabi, non c’è iente di male se le donne israeliane svolgono la stessa funzione.

Giornalista :Questo include anche lo stupro?

Nagla Al Imam
: No. Riguardo alle molestie sessuali, le israeliane non hanno nessun diritto di reagire.I combattenti della resistenza non commetterebbero tali azioni perché i loro valori sono troppo elevati. Comunque se dovesse succedere,le israeliane non avrebbero nulla da lamentarsi perché la questione va posta in questo modo:” lasciate la nostra terra e non vi violenteremo”.
Non voglio che giovani arabi siano processati, voglio che queste ragazze sioniste con cittadinanza israeliana siano espulse dai nostri paesi arabi.Questa è una forma di resistenza e un modo per allontanare la loro presenza.

Sarebbe molto interessante farci sopra un sondaggio e scoprire quante persone nei paesi arabi, sono contrari a questa concezione.Perchè questo è il vero problema.Quanto questo odio disumano nei confronti degli israeliani è diffuso, quanto è legato al loro essere semplicemente ebrei indipendentemente dalle azioni che compiono
Sarebbe, altresì interessante, sapere i commenti delle donne relativiste culturali, che difendono la cultura araba e la posizione della donna in essa, sostenendo che non abbiamo nessun diritto di portargli i nostri valori di civiltà.